“Letting go of the Doctor is so, so hard”
Sono folle. Devo esserlo o tutto questo non avrà spiegazione. Sono folle perché mi riprometto di non farlo più, di non amare più una storia destinata a finire, un personaggio destinato a lasciarmi, una canzone destinata a concludersi, e puntualmente invece ci ricado e ogni volta spero che finisca diversamente, o meglio, spero che non finisca mai. Perché Bill ha ragione, l’aspetto peggiore dell’incontrare il Dottore è lasciarlo andare, lasciarlo andare non è difficile, è impossibile. “Impossibile”, come ciò che ho pensato la prima volta che ho guardato questa serie che mi appariva totalmente fuori dal mondo, “Impossibile” come il modo in cui lentamente entrava di prepotenza nella mia vita di tutti i giorni, “Impossibile” come la ragazza che si è fatta largo nella mia testa e non è più andata via, “Impossibile” come credere di poter donare una parte di me a un altro volto del Dottore dopo il primo che mi aveva travolto. Il Dottore, il MIO Dottore, con questo volto, è impossibile per me: da dimenticare, da descrivere, da lasciar andare. Eppure “Twice Upon A Time” è un addio, uno di quelli che non puoi fermare nonostante ci provi con tutte le forze, un addio di quelli che lasciano il segno perché ad andar via questa volta non è soltanto un interprete ma un’idea, un sogno custodito gelosamente da un bambino di sei anni, un modo di intendere e vedere una storia, una volontà di realizzare questa storia e di diventare un tramite tra la parola scritta e quella pronunciata e infine una possibilità di tradurre in musica tutte le parole taciute, tutti i ricordi che non sono diventati storie.
Steven Moffat porta via con sé la dedizione dedicata a una storia per cui c’è sempre stato e che ha reso propria quando “sua” ancora non lo era del tutto; porta con sé il compagno che è stato costantemente al suo fianco, la sua perfetta metà creativa; porta con sé la scena e la musica, i protagonisti che hanno permesso ai suoi pensieri di prendere vita anche senza l’ausilio delle parole; e infine Moffat porta via con sé il SUO Dottore, quello che non avrebbe mai potuto cambiare, quello che sembra quasi aver realizzato i suoi sogni più reconditi, quello a cui ha donato tutto e che gli ha restituito tutto in cambio. Steven Moffat è riuscito lì dove una parte di me non riuscirà mai: ha lasciato andare il Dottore, il suo mondo, il suo palcoscenico, e lo ha fatto portando in scena il suo ultimo atto straordinario e poi congedandosi nell’ombra, mano nella mano con una vecchia amica, o meglio, una “vecchia Companion”.
![]()
“That’s what it means being the Doctor of war”
“Twice Upon A Time” mi appare ora come un dialogo, dal principio all’epilogo, un dialogo dalle sfumature oserei dire quasi teatrali ma soprattutto un dialogo che il Dottore intavola sul limitare della sua esistenza con l’unico interlocutore che possa davvero capirlo, l’unico in grado di ascoltare le sue paure e i suoi dubbi, di scoprirne i tormenti e i dilemmi, di leggere e interpretare i suoi pensieri più celati, quelli che più lo terrorizzano e lo avviliscono, lasciandolo solo su un campo di battaglia troppo stanco per continuare a combattere. Il Dottore quindi si confessa, a volte con strazianti silenzi, a volte con parole colme di rabbia, e infine con stoica accettazione, e lo fa davanti all’unica persona che lo conosce totalmente e riesce ad ascoltare i suoi timori più radicati e ad affrontare i suoi demoni più feroci, il suo miglior amico e il suo peggior nemico: semplicemente se stesso, chi è stato e chiunque diverrà.
Ho sempre creduto che il Dodicesimo Dottore racchiudesse in sé caratteri quasi antitetici, che sapesse essere “uno e centomila”: se stesso, in un’individualità a volte così estrema da renderlo quasi un uomo a parte, un personaggio completamente diverso e distante da coloro che l’hanno preceduto, e “tutti”, una personalità che non vive sola ma in perfetta armonia con tutte le sue anime, un “personaggio in cerca d’autore” che si lascia alle spalle anche il suo scrittore e vive sospeso come un ideale, un messaggio, un eroe di cui l’universo avrà sempre bisogno. Twelve è sempre stato caratterizzato come un punto d’incontro, secondo me, tra ciò che è quasi chiamato ad essere in quanto Dottore e ciò che invece lui ha scelto di diventare, formandosi giorno dopo giorno e affermandosi come colui che fa ammenda e si definisce tramite le sue scelte e le sue decisioni, “Who I am is where I stand. Where I stand is where I fall”. Ed è esattamente in questa caratterizzazione che si inserisce a mio parere la figura del Primo Dottore, “the original you might say”, un Dottore che diventa per Twelve contemporaneamente il riflesso di ciò che è e di ciò che non vuole essere, un Dottore che non potrebbe essere più distante e diverso da lui e che, quasi come un crudele scherzo del destino, non potrebbe essere più simile, nella determinazione, nella paura, nel costante interrogarsi per soddisfare un insaziabile bisogno di sapere, quel bisogno che l’ha spinto a fuggire la prima volta e per cui non ha mai smesso di correre.
Il confronto tra il Primo e il Dodicesimo Dottore è uno spettacolo che viene messo in scena su più livelli, un dialogo, come ho anticipato, che si articola con sfumature a volte paradossali e a volte perfettamente normali, proprio a seconda delle diverse frequenze su cui si muovono le due voci. I due Dottori si ritrovano per la prima volta alla fine dei loro percorsi individuali e all’inizio di quello che invece sono destinati a compiere insieme, in un vortice di colori e luci fredde e tenui che travolgono e riempiono il Polo Sud, in un tempo che si ferma solo per loro, costringendoli ad affrontare la verità da cui entrambi sono in fuga ma concedendo loro anche un’ultima avventura che riporti ordine nella loro essenza più autentica, nel significato più profondo della loro esistenza.
![]()
“I have the courage and the right to live and to die as myself”, il Primo e il Dodicesimo Dottore rifiutano categoricamente ciò che l’uomo ordinario ricerca per tutta la vita: un modo per sopravvivere, per andare avanti, per sconfiggere la morte e avere una seconda possibilità di lasciare un segno, ed entrambi i Dottori alimentano questo rifiuto con una stessa paura che si carica però di ragioni differenti. Il Primo Dottore ha paura dell’ignoto, paura di cambiare e diventare una persona che non riconosce e non accetta, paura di perdere se stesso e la sicurezza che lo rende così deciso, paura di un futuro che sa bene essere solo all’inizio; il Dodicesimo Dottore è spaventato invece dal suo passato, da tutto ciò che ha già vissuto, amato e perso, da tutte le volte che ha ricominciato da capo, da tutti quei volti che ricorda e sente ancora dentro di sé ma che ora lo sfiniscono perché più va avanti più diventano un fardello impossibile da sopportare. Twelve è stanco, stanco di dover ricominciare a conoscersi, stanco di tutti quei demoni che lo raggiungono ad ogni rigenerazione, stanco di ripartire e iniziare un nuovo viaggio proprio quando credeva di essere arrivato al traguardo. Credo però che vedere il riflesso delle sue stesse paure nel suo primo volto sia stato il primo momento in cui inconsciamente Twelve ha cominciato a fare pace con l’idea di dover andare avanti, di rigenerarsi, perché se non l’avesse fatto la prima volta, se il Primo Dottore non avesse infine scelto di abbracciare il suo destino e la sua natura, lo avrebbe privato di quel futuro che ora sta vivendo, di quel Dottore di cui ora è così fiero da non volerlo perdere, ed è la stessa possibilità che ora Twelve sta invece negando a chi verrà dopo, a quella parte di sé che non conosce ma che esattamente come lui vuole soltanto avere l’occasione di essere IL DOTTORE.
Il confronto tra i due Dottori dunque è un duello che appare quasi generazionale e credo che proprio per questo sia stato visto e letto sotto una luce a mio parere sbagliata. Lungi da me dover sempre difendere a spada tratta l’operato di uno scrittore che ammiro e stimo come pochi, penso onestamente che non solo le accuse rivolte alla sua personale caratterizzazione del Primo Dottore siano fondamentalmente esagerate ma temo anche che questa crociata abbia fatto perdere di vista il vero significato di questa presenza. Contestualmente parlando infatti, per quanto il Dottore, essendo un Signore del Tempo, esuli spesso dai dibattiti prettamente umani su società, razza e genere, non va comunque ignorata una realtà che esiste anche per il Dottore, ossia quella generazionale, una realtà che non solo cambia con l’avanzare del tempo, anche per una specie evoluta che il Tempo lo modella a suo piacimento, ma che inevitabilmente viene influenzata costantemente dall’umanità e dal suo stile di vita e di pensiero, un’umanità a cui il Dottore è sempre molto vicino.
![]()
Il Primo Dottore di Hartnell, per quello che ho potuto constatare dalle storie che ho recuperato dell’era classica della serie, era comunque un Dottore estremamente diverso da quelli che abbiamo conosciuto a partire dal 2005 – e sembra anche stupido doverlo evidenziare – proprio perché appartenente a una generazione differente, a un tempo differente, era un Dottore spesso superbo, che non avrebbe mai ammesso che da giovane il suo migliore amico, il Maestro, era la sua “man crush”, che non avrebbe accettato facilmente di prendere “ordini” da una companion, che non era avvezzo alle consuetudini più moderne non soltanto degli uomini ma anche della sua stessa specie, considerando infatti spesso “sciocchezze” i modi di fare di sua nipote Susan. Per questo motivo i battibecchi che nascono tra lui e Twelve, i contrasti che sembrano stridere così tanto nella caratterizzazione di uno “stesso” personaggio vanno secondo me interpretati semplicemente per ciò che sono: tentativi a mio parere anche riusciti, seppure con un pizzico di esagerazione, di portare in scena innocue differenze innegabili, cercando di alleggerire il più possibile una storia che altrimenti sarebbe stata straziante oltre ogni limite e impossibile da affrontare per tutta la sua durata.
![]()
![]()
Ciò che dovrebbe rimanere di questo confronto, ciò che dovrebbe colpire del Primo Dottore di David Bradley è l’autenticità del personaggio nella sua caratterizzazione più intima, è la purezza di un dilemma e di una paura che il Dottore porta con sé in tutte le sue vite, è la perseveranza di una domanda a cui non troverà mai risposta ma che rappresenterà sempre il motore intrinseco della sua esistenza. Questo è ciò che riporta i due Dottori sulla stessa lunghezza d’onda, questo è ciò che è stato profondamente rispettato del personaggio, questo è ciò che li rende nuovamente “uno”, oltre tutte le evidenti differenze, oltre le vite distanti, oltre le generazioni: è la volontà di capire gli opposti primordiali, bene e male, il desiderio di scoprirne il funzionamento e la natura del loro eterno e sostanziale equilibrio, il bisogno di conoscere la loro essenza perché in quel momento il Dottore conoscerebbe finalmente anche la sua, essendo lui il volto di quell’equilibrio, lui il motivo per cui ad ogni torto corrisponde sempre una ragione.
“That’s what it means being the Doctor of war” – Il Primo Dottore era apparso terrorizzato da questa definizione, da quello che sembrava dover essere il suo futuro e questo lo aveva convinto ancora di più della sua decisione di non cambiare ma è Twelve a risolvere forse in parte il suo interrogativo maggiore, a dissipare la sua paura più recondita e a mostrargli cosa il futuro gli riserva: un universo che a volte, grazie alle loro gesta, potrà essere migliore di quanto lui stesso immagini e speri. Il Primo e il Dodicesimo Dottore imparano, l’uno dall’altro, a riscoprirsi nella loro collettività oltre l’individualità, a capire di essere un modello, un ideale e non soltanto un singolo, ad accettare di essere “A Doctor” e non solo “THE Doctor”.
![]()
“Clara, be my pal, tell me: am I good man?”
E quando si parla di Twelve, quando si parla del MIO Dottore, non posso fare a meno di richiamare questa domanda, lui, che è stato il Dottore delle domande, ne fece una importante all’inizio della sua nuova vita e la pose all’unica persona di cui si fidava più di quanto certamente all’epoca si fidasse di se stesso. In molti hanno spesso appuntato quanto, rispetto alle precedenti stagioni, gli episodi dell’era di Peter Capaldi non abbiano mai avuto una reale storyline orizzontale, un filo conduttore che facesse da anello di congiunzione tra tutte le puntate. Ma alla fine della sua epoca, nell’episodio che segna il suo addio alla storia, io vi dico: guardatelo, guardate quel Dottore che lotta contro la sua stessa natura pur di non cambiare ancora, guardate quel percorso così tormentato e intenso che ha compiuto e ritrovatelo in lui il vostro filo conduttore perché Twelve è ciò che unisce queste tre stagioni, la sua evoluzione, la sua crescita, le persone che ha imparato ad amare, quelle che ha perso, quelle che non ha mai accettato di poter perdere, quelle che tornano da lui.
![]()
“Twice Upon A Time” rappresenta la sua perfetta “swan song”, rappresenta il Dodicesimo Dottore nella sua totalità, tutto ciò che è stato, tutto ciò che è, è un finale che racchiude tutte le volte in cui si è sorpreso, meravigliato, in cui ha imparato anche quando credeva di sapere, le volte in cui ha rimediato a un errore, tutte le scelte che lo hanno formato e che lo hanno reso il “good man” che disperatamente voleva diventare, che lo hanno reso il Dottore che più è cambiato e quello che adesso non vuole più farlo. Non è stato un caso per quanto mi riguarda riportare nella sua ultima storia un personaggio insolito e di passaggio come Rusty, il Dalek anomalo che odiava gli altri Dalek, il Dalek che ha guardato nell’animo del Dottore e ci ha visto la sua luce più accecante e le sue ombre più oscure. L’intero episodio infatti mi appare adesso come un autentico omaggio ad ogni fase dell’esistenza di Twelve: alla conoscenza dell’ottava stagione, alla paura irrazionale di perdere nella nona e infine alla realizzazione e all’accettazione di sé della decima, tutte le sfumature del Dodicesimo Dottore, tutti i passi compiuti nel suo percorso lo conducono ora sul ciglio della sua ultima battaglia, quella che non può perdere, quella che non vuole neanche affrontare. E per questo motivo, Twelve prova in ogni modo a ignorare il momento che incombe, prova a vivere a pieno il tempo che si è fermato e trova per se stesso un’altra missione, un altro obiettivo, pregando quasi che ci sia davvero un “cattivo” da affrontare lì fuori, che la Testimonianza abbia davvero un piano malvagio che soltanto lui può fermare e sconfiggere, perché questo è ciò che fa il Dottore e questo è ciò che lui vuole continuare ad essere, il Dottore “che salva le persone”, la ragione più profonda per cui ha scelto quel volto all’origine. Twelve non intende essere il Primo, non intende essere il “Doctor of War”, non intende emulare nessuna delle sue incarnazioni precedenti, il suo percorso si conclude qui perché lui, il Dodicesimo Dottore, è il traguardo che aveva inseguito per tanto, troppo tempo. Ma la mancanza di un effettivo nemico nell’episodio è solo l’ennesimo segnale che Twelve sceglie di non vedere perché questo non gli lascerebbe alcuna via di fuga.
![]()
L’immagine di Bill, i ricordi di Bill recuperati dalla Testimonianza arrivano a lui quasi come lo spirito del Natale Passato dickensiano, come ricordo di ciò che è stato e ha vissuto ma soprattutto come monito di ciò che ancora può essere se solo concedesse al suo futuro la stessa possibilità che il Primo Dottore ha concesso anche a lui, la possibilità di essere un Dottore. Bill diventa la sua guida, la voce che Twelve non vuole ascoltare e tantomeno riconoscere perché non è la “sua” Bill, perché accettare che lo sia significherebbe essere destinato a perderla di nuovo, significherebbe ammettere che abbia ragione, perché le sue companion hanno sempre avuto ragione e sono sempre state, almeno ai suoi occhi, la sua parte migliore.
![]()
Il Capitano Lethbridge-Stewart assume quindi le sembianze dello spirito del Natale Presente, è colui che permette al Dottore di guardare in faccia la morte nella sua ineluttabilità, di viverla, di capirla, di temerla e poi anche di abbracciarla con stoicismo quando si mostra in tutta la sua inevitabilità. Ma in realtà, ciò che il Capitano gli offre è l’ultima possibilità di Twelve di essere se stesso, di confermarsi nel Dottore che è diventato, il Dottore della gentilezza e delle vite salvate, anche solo per una volta, anche solo per il tempo di un giorno, il giorno di Natale. La storia della “Tregua di Natale” avvenuta nella Prima Guerra Mondiale è lo specchio della vita del Dodicesimo Dottore, è la speranza di cui ha sempre avuto bisogno per andare avanti, per definire il suo operato e la sua stessa persona, per rivedersi in quella parte di umanità che merita di essere salvata e che lo ispira a non dimenticare mai cosa significhi essere il Dottore. “Everyone was just kind” e di fronte alla desolazione di un campo di battaglia, Twelve ritrova la sua essenza, la natura della sua missione più profonda e la paura di poterla perdere quando morirà.
![]()
Ed è in quel momento allora che arriva l’unica luce di cui Twelve abbia mai avuto bisogno. Clara Oswald è lo spirito del Natale Futuro perché dona al Dottore la chiusura e la pace di cui aveva disperatamente bisogno per accettarlo il suo futuro, seppure in un’altra forma e un’altra vita. Ciò che mi ha colpito [e travolto, annientato, distrutto e riportato alla vita] di quel breve e fondamentale ultimo momento con la donna che più di chiunque altro ha definito e segnato la vita di Twelve è stato notare quanto, diversamente al suo modo di rapportarsi con l’immagine di Bill in questo episodio, il Dottore abbia accettato l’immagine di Clara come se lei fosse davvero davanti ai suoi occhi, perché non erano soltanto dei ricordi raccolti dalla Testimonianza, erano i SUOI ricordi che tornavano, era la sua Clara che ritornava nella sua testa, nei suoi pensieri, lì dov’è sempre stata, lì dove continuerà a custodirla perché non potrebbe più dimenticarla in quanto significherebbe dimenticare se stesso e il Dottore che Clara ha contribuito a formare. Clara Oswald gli appare ora come la più accecante delle allucinazioni, la carezza più dolce e la mano che ancora una volta lo spinge a rialzarsi e lo riporta a casa.
![]()
Il Dodicesimo Dottore torna nel TARDIS e affronta l’ultimo atto del suo dialogo con un interlocutore adesso silente, che lo ascolta e a cui lui lascia la sua lezione più importante, la sua eredità: tutto ciò che ha imparato e tutto ciò che è stato. Il Mio Dottore offre se stesso a chi verrà dopo, a chi ricomincerà da capo ma non da zero, a chi vivrà il suo tempo a modo proprio, nella speranza però che continui a ricordare, a fare ammenda, ad amare e ad essere gentile.
![]()
![]()
La regia introspettiva e straordinaria di Rachel Talalay è l’ultimo dono concesso al Dottore di Peter Capaldi, la cornice musicale di Murray Gold è l’inno trionfale che accompagna gli istanti finali della sua vita e le parole di Steven Moffat, quelle parole influenzate dallo stesso Capaldi, rappresentano la sua impronta indelebile e la sua anima più autentica. Peter Capaldi è stato il Dottore, “the best one, I might say”, la dodicesima ora è ormai conclusa e il Mio Dottore è finalmente pronto a lasciarsi andare.
![]()
Ed ecco che in un istante tutto cambia. E tutto ricomincia. Una nuova mente afferra le redini di una storia infinita, un nuovo volto prende possesso del TARDIS [o almeno ci prova, da quello che ho visto il TARDIS ha qualcosa da dire a riguardo …] e un nuovo Dottore è pronto ad entrare nella nostra vita. Personalmente sono pronta a donare a Jodie Whittaker tutta la stima, la passione e la dedizione che già le riservo da anni, tutto ciò di cui il suo Dottore avrà bisogno, tutto tranne quella parte di me che ormai non mi appartiene più e che è andata via con Steven Moffat, Peter Capaldi e Jenna Coleman.
![]()